
Nell’imminenza del dibattito parlamentare sul cosiddetto Ddl Concorrenza, Assofondipensione auspica una modifica delle norme che riguardano la previdenza complementare. In particolare l’Associazione, che vede insieme Confindustria e Sindacati e rappresenta oltre due milioni di lavoratori dipendenti iscritti ai fondi pensione negoziali o di categoria, ritiene che l’articolo che modifica la cosiddetta portabilità dei fondi pensione sia un crogiolo di errori.
La norma consentirebbe al lavoratore dipendente di uscire dal fondo pensione portandosi in dote anche il contributo a carico del datore di lavoro. “Si dimentica - afferma il Presidente di Assofondipensione Michele Tronconi - che i fondi pensione negoziali sono essenzialmente dei “consorzi di acquisto” e non degli enti gestori. Infatti non impiegano direttamente i risparmi che ricevono dagli aderenti, ma li raggruppano in comparti dandoli in gestione a operatori specializzati, messi preventivamente in concorrenza tra di loro anche in base al livello di costi e commissioni”.
Secondo Assofondipensione il disegno di legge proposto dal ministero dello Sviluppo Economico prende anche un abbaglio: parte infatti dal presupposto che il sistema dei fondi pensione negoziali sia poco efficiente, cioè poco redditizio. “Quando invece le nostre performance - tiene a sottolineare Michele Tronconi - costituiscono un’autentica storia di successo: la media dei rendimenti dei fondi negoziali dal 2008 al 20014 risulta infatti del 3,7% annuo, più dei fondi pensione aperti (3,2%) e molto di più dei piani assicurativi individuali “nuovi” (2,7%)”.
Ecco che cosa potrebbe accadere, secondo Assofondipensione, se il provvedimento passasse indenne al vaglio parlamentare. Innanzitutto, si metterebbero in competizione dei veicoli (i fondi negoziali), con dei prodotti (i PiP - piani individuali di previdenza), facendo saltare la logica multi-pilastro su cui dovrebbe poggiare il nostro sistema pensionistico; i cui tre elementi costitutivi, a partire da quello pubblico a carattere obbligatorio, non dovrebbero essere alternativi, ma complementari l’uno con l’altro. Ciò al fine di assicurare tassi di sostituzione, cioè assegni pensionistici in proporzione all’ultimo stipendio, maggiormente soddisfacenti.
Pur con il lodevole obiettivo di ampliare il mercato del risparmio previdenziale, s’incentiverebbero solo i PiP a carpire gli aderenti ai fondi negoziali per incamerare la dote del contributo del datore di lavoro, con un effetto a somma zero per quanto riguarda le adesioni complessive alla previdenza complementare. Mentre l’altro obiettivo, quello di favorire la massimizzazione dei rendimenti, verrebbe perseguito senza tenere in considerazione l’effetto dei costi commissionali sulla formazione dei montanti che anno dopo anno contribuiscono a creare la pensione. Per inciso, proprio per la loro logica costitutiva, i fondi negoziali hanno un costo medio dello 0,23% all’anno (ISC calcolato da Covip), mentre i PiP costano in media l’1,63%. “Vuol dire che a parità di versamenti nominali e di rendimenti annui lordi, dopo 35 anni, gli aderenti ai negoziali ottengono circa il 30% in più di chi abbia optato per un PiP”, rimarca Michele Tronconi.
Sempre in materia di rendimenti, si sorvolerebbe infine sul fatto che il risparmio viene effettivamente gestito da un ridotto numero di operatori specializzati, con risultati - in termini di rendimento - non molto dissimili fra di loro. “Per questo - sostiene il Presidente di Assofondipensione - è più importante ridurre l’incidenza dei margini commissionali che illudersi di trovare il gestore col tocco di re Mida”.
In definitiva, a giudizio di Assofondipensione, non c’è alcun fondamento economico affinché lo Stato debba favorire gli enti orientati al profitto rispetto a quelli no profit. “C’è da chiedersi - osserva Michele Tronconi - perché si voglia mettere in difficoltà la solidarietà a favore del profitto, per quanto lecito. Il nostro auspicio è che il Parlamento, invece di trovare una risposta, cambi la domanda”.