Per l’anno in corso c’è da aspettarsi un incremento delle attività terroristiche sul continente asiatico. È questa la previsione di Aon contenuta nello studio annuale Risk Maps for Political Risk and Terrorism and Political Violence, realizzato in collaborazione con Roubini Global Economics e The Risk Advisory Group e diffuso poche ore prima dell’attacco missilistico alla Siria da parte degli Stati Uniti.
Secondo Julian Taylor, responsabile dell’area Crisis Management di Aon Risk Solutions, “la crescita del rischio terrorismo va di pari passo con l’ascesa dello stato islamico nel continente asiatico e con il gran numero di cittadini che sono tornati a casa dopo aver combattuto in Medio Oriente, contribuendo a radicalizzare ulteriormente la lotta. Le modalità degli attacchi terroristici stanno diventando sempre più diverse. Dalle azioni contro obiettivi strategici, come infrastrutture, siti archeologici, aziende produttive, strutture immobiliari si è passati a colpire le persone fisiche, con azioni di individui fortemente motivati pronti a farsi saltare in aria con una bomba, o a lanciarsi a velocità sostenuta con un camion tra una folla di persone”.
A Singapore il livello di rischio terrorismo e violenza politica è stato alzato da “trascurabile” a “basso”, alla luce della serie di recenti arresti di presunti estremisti, mentre in Indonesia è stato smantellato un gruppo di terroristi che puntavano ad attaccare l’isola nel 2016.
Nelle Filippine il rischio è destinato a rimanere “alto” per tutto il 2017, visto che lo Stato islamico vuole fare del Paese una sorta di hub per i militanti che non sono in grado o non se la sentono di combattere in Siria o Iraq. Punteggio innalzato a “medio” per la Malesia, dopo il primo attacco nel paese da parte dello Stato islamico e l’elevato numero di terroristi arrestati nel 2016.
A livello mondiale, si legge nel report di Aon, nel 2016 si è registrato un incremento di attacchi terroristici del 14% rispetto all’anno precedente. Inoltre, l’esasperato nazionalismo e il populismo stanno creando un ambiente sempre più instabile con evidenti ricadute sullo stato del commercio internazionale.
La minaccia terroristica continua ad evolversi, andando a colpire un ventaglio sempre più ampio di settori e di Paesi, attraverso strategie sempre più diversificate che hanno come obiettivo quello di uccidere, piuttosto che di interrompere l’attività produttiva delle aziende o distruggere la supply chain.
Inoltre, sono in piena evoluzione altre tipologie di rischio a livello geopolitico che portano ad un aumento dei costi per la sicurezza, a forme di governo più autoritarie e a un indebolimento del consenso tra gli Stati. Insomma, non si intravedono indicatori di un complessivo attenuamento degli episodi di violenza legati ad avvenimenti politici. Tutto ciò evidenzia l’importanza di considerare nella gestione delle crisi i pericoli che vanno anche oltre al danneggiamento della proprietà privata, in particolare nei settori petrolifero, dei trasporti e della distribuzione, che sono stati quelli più a rischio.
Nel 2016 le compagnie petrolifere e le aziende del settore energetico sono state bersaglio del 41% degli attacchi terroristici contro gli interessi commerciali e il trend proseguirà anche nel 2017. In cima alla classifica dei Paesi più colpiti da attacchi terroristici, limitatamente al settore energetico, troviamo Colombai e Nigeria, dove gli attacchi da parte dei militanti nel Delta del Niger nel primo semestre dell’anno scorso hanno ridotto la produzione petrolifera nigeriana del 36%. L’Arabia Saudita, l’Iran, la Russia, il Venezuela e gli Stati Uniti sono risultati i Paesi vulnerabili ai cali di produzione. Con il mercato del petrolio in calo, in futuro queste crisi nelle forniture potrebbero determinare degli impatti maggiori sul prezzo.
Le aziende si trovano ad affrontare oggi una crescente esposizione al rischio di atti di violenza per avvenimenti politici in tutto il mondo. Per il secondo anno consecutivo si registra una crescita del numero dei Paesi (19) in cui sono in aumento i rischi politici, rispetto ai Paesi in cui sono diminuiti (11).
Nel complesso i livelli di rischio terroristico e politico sono i più alti mai registrati dal 2013, che comprendono non solo quello legato al terrorismo, ma anche l’esposizione a colpi di stato, guerre tra Stati, conflitti civili e ribellioni. Sono 17 i Paesi a più alto rischio, che costituiscono veri e propri epicentri di instabilità, da cui provengono le principali minacce di terrorismo internazionale che aumentano in maniera sensibile l'esposizione ai rischi d’impresa nei Paesi limitrofi. Tre cinture a rischio molto elevato si estendono dall’Africa, passando per il Mediterraneo fino all’Atlantico, attraverso il Mediterraneo Orientale e l’Asia meridionale.
Paesi fortemente integrati nell’economia globale, come Cile, Colombia, Hong Kong, Malesia, Singapore e Taiwan, sono soggetti ad un maggior rischio politico a causa della loro dipendenza da Stati Uniti e altri partner commerciali. Messico e Filippine sono più vulnerabili alla riduzione delle rimesse da parte dei cittadini residenti all’estero qualora si verificassero restrizioni di tipo commerciale. Brasile, India, Indonesia e Nigeria sono meno vulnerabili, potendo contare su economie nazionali più grandi, molto meno dipendenti dalle esportazioni.
Medio Oriente e Nord Africa presentano la più alta concentrazione di Paesi con rischio da alto a molto alto, con rischi politici accresciuti e livelli molto elevati di episodi di violenza collegati ad avvenimenti politici (ad esempio in Iraq, Siria, Yemen e Libia) che possono interessare anche gli Stati limitrofi, minando il commercio e il turismo.
La perdita di controllo su alcuni territori in Iraq e Siria da parte dell’ISIS potrebbe portare ad una maggiore dispersione della rete jihadista, con gravi implicazioni per decine di Paesi dell’area e non solo, con possibili effetti soprattutto in Europa e in Asia. I Paesi più ricchi del CCG (Consiglio di Cooperazione del Golfo) risultano più resilienti agli shock politici, ma permangono le vulnerabilità economiche, tra le quali i debiti dei governi nei confronti delle aziende private e i maggiori costi di approvvigionamento del capitale.