
La sesta edizione dell’Osservatorio Cineas-Mediobanca sulla diffusione del risk management nelle medie imprese italiane evidenzia come le imprese che gestiscono i rischi nella modalità più evoluta siano passate dal 17,2% del 2016 al 37,5% nel 2018.
Continua inoltre ad evidenziarsi una correlazione positiva tra performance economiche e gestione integrata dei rischi: oltre un terzo di ritorni in più (+34% Return on Investment – ROI e +39% di Return on Equity – ROE) per le aziende attente ai rischi. Un’ulteriore buona notizia risiede nel calo della percentuale di aziende sprovviste di un sistema di gestione dei rischi, passate negli ultimi tre anni da quasi il 20% a circa il 6%.
A livello geografico le aziende più virtuose si trovano nel Nord-Est d’Italia, seguite dal Nord-Ovest e dal Centro, mentre emerge un significativo ritardo delle aree meridionali. Un’impresa su tre del Mezzogiorno non dispone di un adeguato presidio del rischio, contro la media nazionale di una su cinque imprese. I settori più virtuosi sono il chimico-farmaceutico e l’alimentare. “La ricerca ci ha permesso di sottolineare come il governo dell’impresa debba ricomprendere la gestione dei rischi”, ha commentato il presidente di Cineas, Massimo Michaud. “Le aziende più attente alla gestione del rischio guadagnano di più e sono più propense all’innovazione. In particolare, è importante che il management sia edotto sui rischi operativi dell’azienda in quanto nel 57% dei casi è responsabile di questa funzione. La gestione del rischio esce dalla sfera delle funzioni specialistiche per permeare l’attività dell’impresa nel suo complesso”.
Il passaggio generazionale è considerato come un fattore di elevata criticità dall’80% delle aziende intervistate. Le medie imprese italiane del campione hanno quasi 50 anni di storia imprenditoriale e vedono alla guida più frequentemente la seconda generazione (41,3% dei casi) e la prima generazione (34,9%).
La maggioranza dei CEO (81%) proviene dalla famiglia proprietaria dell’azienda, ma con il progredire delle generazioni aumenta la probabilità di assunzione di un CEO esterno alla famiglia, che in genere è più giovane e, più frequentemente, ha un grado di istruzione universitaria. Questo modello di governance “aperta” porta performance economiche migliori, rispetto alle aziende dove permane la sovrapposizione tra proprietà e gestione familiare (ROI: 13,2% vs 10,2%).
In tema di innovazione l’indagine ha preso in esame le azioni intraprese dalle aziende per sfruttare le opportunità derivanti da Industry 4.0. Solo il 23,2% delle imprese ha investito sia nell’innovazione dei macchinari che dei processi, mentre il 36% delle imprese non ha ancora attuato nessun tipo di trasformazione. I dati evidenziano che le imprese che si sono attivate per l’adozione delle innovazioni tecnologiche hanno performance economiche migliori di quelle che sono indifferenti o in ritardo rispetto a Industry 4.0. Una quota notevole di imprese che si è cimentata con Industry 4.0 (30%), lo ha fatto dotandosi delle skills necessarie tramite piani di formazione interna (già realizzati o in programma per il 77,7% dei rispondenti) o tramite acquisizione di risorse esterne specializzate (20%). “In questo rinnovato scenario si evidenzia la sempre maggiore centralità che stanno assumendo i cosiddetti asset intangibili – intendendo con questa espressione il know how, il valore del brand, la reputazione, gli investimenti nella formazione – per le performance dell’impresa”, ha osservato Gabriele Barbaresco, direttore dell’Ufficio Studi di Mediobanca, commentando i risultati della ricerca.
Nella gestione dell’azienda i rischi derivanti dagli obblighi normativi figurano stabilmente tra le preoccupazioni prioritarie delle imprese (sicurezza sul lavoro e difettosità del prodotto). Al quarto posto troviamo il rischio reputazionale. Rispetto a quest’ultimo profilo il 57% delle imprese ritiene il rischio reputazionale non assicurabile; inoltre, rispetto a tale rischio le aziende percepiscono un divario tra esposizione ed efficacia delle attività con cui esso è presidiato.
Solo il 16,4% delle aziende impiega unicamente risorse interne per la gestione dei rischi, mentre nell’82,3% dei casi l’azienda ricorre all’affiancamento di un partner esterno. L’imprenditore si rivolge nel 37,7% dei casi a consulenti d’impresa, nel 27,1% ai broker e solo nel 17,5% dei casi alle assicurazioni.
Vi sono alcuni rischi che le imprese percepiscono come non assicurabili, tra i quali ad esempio il rischio di danno ambientale (rispetto al quale sono assicurate il 58% delle imprese). Il ricorso all’assicurazione coinvolge meno di un terzo degli intervistati per i seguenti rischi: business continuity e supply chain (il 32% delle imprese è assicurato), cyber risk (23% di imprese assicurate), tutela delle competenze professionali ex aequo con il rischio reputazionale (19% di assicurati) e imitazione del prodotto (13%). La causa del basso ricorso all’assicurazione è duplice: da una parte la mancata conoscenza dell’offerta assicurativa, dall’altra la percezione che l’evento dannoso abbia una bassa probabilità di verificarsi. Il costo delle polizze non sembra invece rappresentare il motivo principale della rinuncia (solo 25% dei casi).
La ricerca annuale, realizzata dal Consorzio universitario in collaborazione con l’Ufficio Studi Mediobanca, ha coinvolto 308 aziende attive nei settori alimentare, beni per la persona e la casa, chimico farmaceutico, meccanico e metallurgico. Le imprese che hanno composto questa edizione dell’Osservatorio hanno, mediamente, 151 dipendenti ed un fatturato di 58,2 milioni di euro.