
L’Italia si conferma la patria dei freelance, una terra dove il lavoro autonomo non è più una nicchia, ma una scelta di massa. Secondo gli ultimi dati ISTAT, nel febbraio 2025 i lavoratori indipendenti hanno superato quota 5 milioni e 170 mila, in aumento del 2,8% rispetto all’anno precedente.
Una cifra che pone il nostro Paese ai vertici europei per incidenza di occupazione autonoma: “Il 23,1% degli occupati italiani lavora in proprio, un dato che ci colloca ben al di sopra della media europea del 14,3%” spiega Sauro Mostarda, ceo di Lokky, la piattaforma insurtech dedicata alle microimprese e ai professionisti.
Dietro questi numeri si nasconde un nuovo universo del lavoro: video maker, influencer, content creator, sviluppatori, social media manager, grafici digitali e consulenti di marketing rappresentano una generazione di professionisti che vive di competenze digitali e di creatività. “Queste figure sono sempre più richieste”, sottolinea Mostarda, “perché sanno rispondere alla crescente domanda di visibilità online e innovazione tecnologica. Sono loro a trainare l’economia del digitale”. Un mercato vivace, dove chi lavora in autonomia può arrivare a guadagnare fino al 45% in più rispetto a un dipendente. Ma dietro la libertà, c’è anche una realtà fatta di disuguaglianze, precarietà e rischio.
“Il reddito medio annuo dei freelance italiani si aggira attorno ai 43.000 euro” osserva Mostarda, “ma la forbice è enorme: alcuni professionisti digitali guadagnano molto, altri faticano a raggiungere la soglia di sussistenza. A differenza di quanto accade nei Paesi del Nord Europa, da noi mancano strumenti di welfare efficaci per rendere il reddito dei freelance stabile e prevedibile”.
E non si tratta solo di soldi. Il mito del freelance che lavora quando vuole si infrange di fronte ai dati Eurostat: chi è autonomo in Italia lavora mediamente 46 ore a settimana, spesso anche nei weekend. “La flessibilità è reale, ma lo è anche la fatica. Gestire clienti, progetti e scadenze significa spesso non staccare mai del tutto” ricorda Mostarda.
A complicare il quadro, ci sono i rischi professionali. Un video maker può essere citato per violazione dei diritti d’immagine, un social media manager può pubblicare un contenuto diffamatorio, uno sviluppatore può commettere un errore di codice costoso per il cliente. “Basta un imprevisto per compromettere anni di lavoro. Eppure molti freelance operano ancora senza alcuna copertura assicurativa”, avverte il ceo di Lokky. “La responsabilità civile professionale non è un lusso, ma una necessità. Tutelarsi significa proteggere la propria reputazione e garantire continuità al proprio business”.
Nel mondo digitale, poi, la minaccia cyber è sempre dietro l’angolo. “Attacchi informatici, furti di dati, ransomware e truffe online sono oggi tra i principali rischi per i professionisti del settore media e tech” spiega Mostarda. “Un singolo attacco può danneggiare non solo i propri sistemi, ma anche quelli dei clienti, generando responsabilità legali e danni economici enormi. E le micro-agenzie, spesso prive di infrastrutture adeguate, sono le più vulnerabili”.
Non meno importante è la protezione sociale. “A differenza dei lavoratori dipendenti, per i freelance italiani non esiste un obbligo generalizzato di assicurazione contro infortuni o malattie” sottolinea Mostarda. “Questo rende fondamentale integrare con coperture private: non si tratta solo di tutelare la salute, ma anche la capacità di generare reddito. Lo dimostrano i dati ANIA, con premi in crescita del 2,8% nel 2024”.
Il tema riguarda anche le donne freelance, spesso costrette a conciliare maternità e lavoro senza tutele adeguate. “Le protezioni pubbliche restano frammentate”, riconosce Mostarda, “ed è per questo che le soluzioni assicurative private diventano fondamentali per garantire continuità di reddito”. Il ceo di Lokky sottolinea come il settore assicurativo si stia evolvendo con coperture sempre più flessibili e su misura, pensate per le diverse esigenze dei professionisti digitali. Ma, avverte, “la vera sfida è culturale: i freelance devono considerare la prevenzione come un investimento e non come un costo. Solo così potranno lavorare con sicurezza, sostenibilità e vera indipendenza”.