
L’escalation militare scatenata dall’attacco statunitense a tre siti nucleari in Iran e dalla risposta immediata di Teheran contro Israele non è solo una nuova crisi geopolitica, ma una bomba a orologeria per l’economia italiana.
Il Centro studi di Unimpresa lancia l’allarme: le piccole e medie imprese italiane rischiano di vedersi recapitare, già nel terzo trimestre del 2025, bollette energetiche più care fino a 6.000 euro.
L’effetto domino di questa tensione si riflette sui mercati del gas e del petrolio, dove i prezzi hanno già iniziato a impennarsi: il Ttf di Amsterdam ha registrato un +9% nelle prime ore, mentre il Brent è volato sopra i 95 dollari al barile. Se questo scenario dovesse consolidarsi, l’impatto sui bilanci delle aziende italiane sarebbe pesante e diretto, con un incremento medio del 15-20% sui costi dell’energia. “Le imprese energivore sono già in sofferenza”, avverte il Centro studi, indicando settori come ceramica, metallurgia, alimentare, carta e vetro tra i più esposti.
Ma a subire le conseguenze non saranno solo i comparti ad alta intensità energetica: anche artigianato, piccola manifattura e servizi stanno già assorbendo parte dell’urto.
Il meccanismo è noto e brutale: quando l’energia costa troppo o è instabile, le aziende tagliano spese, rinviano investimenti, rallentano la produzione oppure aumentano i prezzi. E il conto, inevitabilmente, lo pagano i consumatori. L’inflazione, che solo un mese fa sembrava sotto controllo, rischia ora un’accelerazione pericolosa: secondo le stime, l’impatto di un aumento stabile di 10 euro/MWh sul gas e 10 dollari al barile sul petrolio potrebbe far salire l’inflazione italiana tra 0,4 e 0,8 punti percentuali.
“Non possiamo permetterci di affrontare una nuova crisi energetica con strumenti ordinari”, ha dichiarato Giuseppe Spadafora, vicepresidente di Unimpresa, chiedendo al governo un monitoraggio costante e la convocazione urgente di un tavolo di emergenza a Palazzo Chigi con imprese, regolatori ed energy company. Il cuore del problema, per l’Italia, è strutturale: il Paese importa oltre il 75% del fabbisogno energetico e ha un tessuto produttivo frammentato e vulnerabile agli choc esterni. Questo significa che i rincari si propagano velocemente lungo la filiera fino ai beni di largo consumo, come pane, pasta, latte e carne, dove si prevedono aumenti del 2-4% già tra luglio e settembre. A questi si aggiungeranno gli impatti su trasporti, logistica, riscaldamento e manutenzione, aggravando la pressione sulle famiglie a reddito fisso. Il rischio reale è che il tasso d’inflazione, che a maggio era al 1,7% al netto di energia e alimentari, torni verso il 3% già entro fine estate.